Attesa
Si arriva percorrendo via San Gottardo: una casa elegante ma consumata, una palma, un grande cancello che introduce ad una corte d’altri tempi. Ci si sente subito accolti, a casa, la semplicità del luogo riporta a ricordi d’infanzia leggeri e imprendibili. Si entra poi in un piccolo laboratorio dismesso, dove Enrica Passoni ha sviluppato la sua installazione. La prima reazione è esitante: colpiscono i muri usurati, le piastrelle consumate e la fredda luce al neon. La sensazione è di entrare in un luogo dove forse si doveva chiedere prima il permesso; ma ormai è troppo tardi. Siamo proiettati nell’intimità dell’artista e non possiamo fare a meno di guardare. Ci apriamo all’ascolto di ciò che solitamente avvertiamo ma non cerchiamo di capire[1].
A tenerci sospesi è il sentimento dell’attesa, elemento forte nella biografia dell’artista: attesa privata del suo oggetto, attesa di per sé, una condizione prima di tutto esistenziale.
Enrica decide di raccontarcelo attraverso indizi e segnali: su una parete figurano circa quaranta carte incorniciate, pagine strappate da un libro di aforismi pubblicato nel 1999, dal titolo Gli altri[2], oggi dipinte, disegnate e reinterpretate secondo una mutata consapevolezza. Si crea un forte gioco di corrispondenze a più livelli. Il primo è quello della parola: le frasi si rincorrono in cerca di risposta oppure lanciano interrogativi che, rimanendo sospesi, aprono a nuovi orizzonti di senso. Carcerati, Gabbia, L’appestato parlano di un senso di solitudine profonda, avvertita come isolamento sociale, che tuttavia non vuole rimanere irrisolta. Ecco allora appelli che si rivolgono all’esterno e che suonano come una rivendicazione di attenzione (Sceglimi) oppure di coraggiosa volontà (Voglio liberarmi da questo tiranno; Voglio volare / non ho le ali). La guarigione dallo stato di sofferenza viene, in definitiva, ricercata nell’incontro con l’altro (Gli altri; Noi riflesso nell’altro), fino alla liberazione (Sono libera).
Il secondo livello di corrispondenze si instaura tra l’elemento verbale e quello pittorico. Perché sono qua suona come una domanda irrisolvibile e a fare eco a tale vuoto è la pennellata nera e densa che percorre la pagina da un lato all’altro. Alla sofferenza dei già citati Carcerati, Gabbia, L’appestato corrispondono linee concentriche che esprimono un claustrofobico senso di chiusura in se stessi, mentre la materia pittorica graffia la carta nei frammenti di dolore come Urla di pietà e Grido. I tratti si fanno più lievi dove anche le parole, con il loro portato semantico, si alleggeriscono: è il caso di Anima o La leggerezza della libertà.
Il terzo livello di richiami è, infine, tra queste pagine e l’installazione nella sua interezza: ogni elemento arricchisce, sviluppa e supera quanto è presente nelle pagine de Gli altri. In una nicchia nel muro è creata una scaffalatura dove sono riposti ordinatamente barattoli vuoti di martellata (il richiamo evidente è all’aforisma Vuoti incolmabili). Essi sono stati collezionati settimanalmente e conservati per scandire la ripetitività dei gesti quotidiani e l’inesorabilità del passare del tempo. Sono specchio del silenzio interiore, un silenzio che aspetta di essere colmato.
Su un’altra parete, in dialogo con il motivo geometrico del pavimento, figurano circa duecento piastrelle realizzate a mano, con decorazioni floreali che nella loro preziosità rimandano all’arte del ricamo e della tessitura. Tale metafora è richiamata anche dai piccoli telai incompiuti contenuti nei cassetti dell’armadio di ferro posto nel piccolo stanzino-cucinotto: un luogo rovinato, solo apparentemente marginale, perché al centro dell’attività creativa dell’ex laboratorio, così come la cucina è stata - ed è ancora - al centro dell’attività delle donne all’interno del focolare domestico.
Sapere aspettare è un elemento che definisce la condizione femminile sin dalle prime rappresentazioni mitiche: si pensi alla pazienza meticolosa di Penelope, che ogni giorno intesse la sua tela per poi disfarla e ricominciare daccapo. Una tensione prima di tutto ancestrale, ciclica e indefessa come i ritmi lunari. L’attesa riguarda tutte le donne, per natura capaci di crescere dentro di sé esseri in potenza e donare loro la vita. Non a caso, il periodo della gestazione è definito proprio come ‘attesa’, un’attesa che, in definitiva, diviene simbolo della fecondità e della potenza creatrice.
Con questo lavoro Enrica Passoni, attraverso il racconto sussurrato di se stessa, si ricongiunge con la storia di tutte le donne; tornano alla mente le parole di Maria Lai: «l’opera d’arte è prodotta in solitudine, ma è sedimento di culture accumulate in millenni di esperienze collettive (...). L’arte di oggi cerca antiche energie, quelle del tempo in cui si viveva nella dimensione magica»[3].
[1] Il tema dell’ascolto è stato sviluppato dall’artista nell’istallazione Siamo in grado di ascoltare?, tenutasi all’Antica chiesetta di Cascina del Bruno, Arcore (MB), 12-13 settembre 2015
[2] E. Passoni, Gli altri, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino 1999
[3] G. Cuccu, M. Lai, Le ragioni dell’arte, A.D. Arte Duchamp, Cagliari 2002, pp. 65-67